VOCABOLI IN LINGUA VENETA DIVERTENTI E CURIOSI
– ‘ndare in coste: significa “andare addosso”. In genere si va in coste alle porte, ai muri, alle persone. Nel caso però in cui si vada in coste a ‘na tosa, cioè a una ragazza, il significato è invece quello di farle la corte.
– El canton: il canton è un angolo. Si può usare in senso proprio ma anche in senso figurato: così essere messo in un canton significa essere messo in disparte, appunto in un angolo di nessuna importanza. Esiste anche il verbo incantonare, che significa più spesso “nascondersi”, a volte anche per amoreggiare.
– Tacàre: “attaccare”, nel senso sia di “incollare” che di “cominciare”. Ad esempio, si può tacàre con lo spuacio (lo sputo), ma si può anche tacare a lavorare, cioè cominciare un lavoro, o tacare el fogo, cioè accendere il fuoco.
– Ciavarsene: è un derivato di ciavare, che significa “chiavare” e che designa l’atto sessuale. Il termine è quindi ovviamente volgare, ma la forma riflessiva indica un sostanziale menefreghismo. Chi se ne ciava significa “Chi se ne importa”; nea vita bisogna ciavarsene de tuto significa “nella vita bisogna fregarsene di tutto”.
– Deghejo: può essere tradotto come “casino”, “parapiglia”, “disastro”, “disordine”. Deriva probabilmente dallo spagnolo degüello, che indica la scannatura ma anche l’arma con cui la si compie. L’espressione tipica, in veneto, è che deghejo! per dire Che casino!.
– Can dal porco: tipica esclamazione difficile da rendere in italiano. La sua traduzione letterale sarebbe “cane del porco”. Di per sé non si tratta di una bestemmia, ma nell’immaginario veneto è come se lo fosse, perché sia il cane che il porco vengono spesso abbinati alla divinità, nelle varie imprecazioni. Ad ogni modo, il fatto di non nominare Dio la rende meno grave, nel sentire collettivo.
– Scarsèa: si tratta della tasca. È presente in modi di dire molto frequenti in veneto ma meno in italiano, come Avere le làgreme in scarsea, che significa “Avere le lacrime in tasca” nel senso di piangere sempre per cose di poco conto.
– Lo strafanto: cosa appariscente, esagerata, kitsch; può comunque essere riferito anche a persone (Non fare lo strafanto, cioè “Non fare l’eccentrico”). Esiste anche il verbo strafantàrse, che significa “vestirsi in modo strano”.
– Spriss: è il modo in cui i veneti chiamano lo spritz, di cui sono in fondo gli inventori.
– S-ciavo: si traduce semplicemente come “schiavo”, ma la sottolineiamo per due ragioni. In primo luogo, perché in veneto la sillaba “sci” viene letta appunto separando la “s” da “ci” (il suono “sci”, ad esempio di “sciare”, viene invece sostituito dalla sola “s”, siare); in secondo luogo, perché probabilmente è proprio da un’evoluzione di s-ciavo che è nata la parola italiana “ciao”.
– Zio canaja: la traduzione letterale è “zio canaglia”. In Veneto è piuttosto diffusa come imprecazione, anche e soprattutto in situazioni che non hanno nulla a che fare né con gli zii, né con le canaglie.
– Te te meti: questa espressione si traduce come “ti metti”. Ad esempio, te te meti el majon? significa “ti metti il maglione?”. Nei casi dei verbi riflessivi, in veneto si trovano infatti due pronomi uno dietro l’altro, il primo che funge da soggetto e il secondo da complemento (Te te si svejà significa letteralmente “Tu ti sei svegliato”, come Te me ga svejà significa “Tu mi hai svegliato”).
– La renga: la parola renga è probabilmente quella con la maggior varianza di significati in veneto. Letteralmente significa “aringa”, ma è molto più usata in senso figurato. In questo modo può indicare sia una bestemmia che delle percosse. Go tirà na renga significa “Ho tirato (detto) una grande bestemmia”, mentre Je go tirà na renga significa più spesso “Gli ho dato un colpo (o uno scappellotto)”. La renga infumegà (aringa affumicata) è invece di solito una donna magra e un po’ patita.
– Stramuson: a proposito di percosse, lo stramuson è uno schiaffo forte, un manrovescio, dato solitamente dalle madri ai figli.
– Betonega: la betonega è la tipica pettegola che sa tutto di tutti. Il suo nome in dialetto deriva dalla bettonica, una pianta un tempo molto comune, diffusa dappertutto e che quindi conosceva in un certo senso la vita privata di tutti i cittadini.
– Sito drio: si traduce come “stai (facendo qualcosa)”, anche se letteralmente corrisponderebbe a “stai dietro”. Ad esempio, la frase “Stai lavorando?” in dialetto si dice Sito drio lavorare?. Oppure ancora, “sto ascoltando una canzone” si dice so drio scoltare na canson. Come si vede dagli esempi, questo modo verbale si forma col verbo essere, seguito da drio e infine dal verbo all’infinito.
– Imburezzarse: “eccitarsi”, “agitarsi”; lo si dice tipicamente dei bambini che si agitano per dei giochi o per delle attività.
– Ghe sboro: si tratta di un intercalare molto diffuso a Venezia ma presente anche nelle altre parti del Veneto. Letteralmente (e volgarmente) significa “ci eiaculo (sopra)”, ma non viene usato di solito in questo senso. Molto più spesso ha un significato paragonabile al romano “e ‘sti cazzi”, altre volte al “che figata” dei milanesi. Decisivo per il suo senso è il tono con cui lo si pronuncia.
– Buèlo: il buelo è il “budello”, ma questa parola viene quasi sempre usata in senso figurato, come aggettivo per descrivere una persona. Il buelo è infatti una persona maleducata, sozza, spregevole, volgare.
– Insemenìo: in italiano non esiste un corrispettivo diretto e bisogna usare la perifrasi “diventato scemo” (o “instupidito”, che però rende meno l’idea). Esiste anche il verbo, insemenire, traducibile come “rincretinire”.
– Pìtima: la figura della pitima, presente storicamente a Venezia ma anche a Genova, è diventata così proverbiale che nei secoli la parola dialettale è passata anche in italiano, nella forma di “pittima”. La pitima era infatti un povero della città che veniva pagato per seguire e pedinare i debitori che non si risolvevano a pagare il loro debito; vestite di rosso e solite a urlare per mettere in imbarazzo il debitore, le pitime erano facilmente riconoscibili e quasi delle figure istituzionali. Col tempo, la pitima è diventata quindi una persona molto insistente o, più spesso, una che si lamenta sempre. Ti xe na pittima significa “Sei uno che si lamenta di continuo”.
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